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Liubou

Conte publié sur le magazine Niederngasse, en langue italienne.

Liubou est l’histoire illustrée d’une jeune fille qui rêve de devenir danseuse au Bolshoï. Elle serait prête à courir plus fort que le tram qu’elle prend tous les jours pour réaliser son rêve… sauf que le temps passe plus vite que lorsqu’on apprend à apprécier les choses de tous les jours.

Liubou I.

Mi chiamo Liubou, ho dieci anni. Sono sul tram, il tram strilla. O sono io a strillare? Sono io, dentro di me, tanto da coprire gli applausi di una platea intera.

Torno dal mio primo balletto, “Scarpette Rosse”, e i miei piedi hanno una tale voglia di danzare che temo si staccheranno a breve dal corpo, proprio come nella storia originale. Immagino mia madre mettersi a correre per recuperarli, farsi spazio tra i passeggeri infreddoliti.

Era stata lei a mettermi in mano il libro con tutte le fiabe di Andersen. Ricordo quella con l’illustrazione di una dama luminosa, dritta fra alberi di limone, sotto un cielo fatto di volti di anime miniaturizzati e una luce gialla che allagava il foglio e si irradiava sulle mie guance.

A proposito della leggenda per cui sono i libri a trovare i lettori giusti, io ricevetti “Scarpette Rosse” alla vigilia del mio primo corso di danza che si teneva a Lublino, un quartiere povero di Mosca. La vigilia, per l’ansia, dovetti fingere di mangiare: approfittavo della sbadataggine di mio padre, che guardava il telegiornale con la consueta amarezza, per appiccicare il bollito nel doppiofondo del tavolo.

Liubou I

Liubou II. La scatola

Liubou pensive

Io e la mia famiglia vivevamo poco lontani da quella che sarebbe stata la mia scuola, in un grande palazzo grigio, soprannominato “Korobka”, la scatola, dove noi e i vicini vivevamo ammassati gli uni sugli altri, proprio come scarpe in una confezione.

Un sovietico rigore ci divideva tutti eccetto quando, quelli troppo poveri, alla fine del mese, venivano a bussare alla nostra porta: le loro visite erano brecce di solidarietà che squarciavano la solitudine generale e paradossalmente rallegravano l’atmosfera. Mia madre, solerte, riempiva di solyanka un barattolo di vetro e lo porgeva ai visitatori. Ricordo ancora la visione della zuppa acidula con i cetriolini in salamoia passarmi sopra la testa. Dentro, una fetta di limone galleggiava.

Nessun rimorso a vedermi soffiare via sotto il naso quella pietanza che amavo così poco.
«Sfama più il patriottismo che lo stomaco», diceva mia madre, chiudendo la porta.

Liubou III. I genitori

Liubou et les cours de danse

I corsi iniziarono ed i primi successi si incasellarono con la facilità dei miei primi puzzle. Ottenevo ottimi risultati col minimo sforzo e per i miei genitori, operai da generazioni, contavano mille volte di più i complimenti di Alina, l’insegnante di danza, che quelli del professore di matematica. Sapevo che il colloquio con lei era andato bene se a casa, sotto al canovaccio, c’era ad aspettarmi la torta Sharlotka.

Mia madre, Bogdana, cucinava cose buone ma brutte. Trascurava la bellezza e la presentazione di qualunque cosa, compresa la sua. La logica avrebbe voluto che una figlia come me, dedita alla grazia dei movimenti come una nonnina alla sua piantina d’erica, avrebbe dovuto farla impazzire ed invece, di me, era fierissima. Era l’unica russa del condominio a venerare il proprio figlio, pratica ritenuta al limite dello sconcio dalle sue pari. Non capiva nulla di danza, non aveva mai accennato un passo davanti a me, mangiava tanto, beveva vodka, guardava stupidaggini e diceva parolacce al presidente in televisione, convinta che trapassassero lo schermo.

Sembrava quasi che in sé dovesse realizzare cinismo, materialismo, una sfrenata autoironia e che in me, sua figlia, avrebbe realizzato tutto il resto: l’arte, la danza, le cose sottili della vita, le stesse che talvolta emergevano nelle sue torte.

Era stata lei a portarmi ad assistere a quel balletto, al Bolshoi, in un giorno freddissimo in cui anche i russi più incalliti maledicevano il Buran, il vento proveniente dalla Siberia che tagliava la faccia.
Quando era rientrata a casa col biglietto tra le mani, avevo quasi avuto un attacco d’asma.
Era protettiva e se gliel’avessi detto non mi avrebbe permesso di andare a danza il giorno dopo.

Liubou IV. Lo spettacolo 1

Liubou dans le tram

L’indomani, sul tram, lo stomaco era rimasto chiuso e il tragitto verso il teatro era parso infinito. Il ritorno era stato anche peggio: sedevo sulla sedia come fulminata, trasfigurata da ciò che avevo appena visto e un po’ in pena per me che a soli 10 anni, ero preda di una passione che nemmeno un adulto avrebbe saputo gestire.

Non avevo che un solo desiderio ormai: diventare una ballerina del Bolshoi, calcare anch’io quel palcoscenico, sapere che c’era da qualche parte, due ore prima del mio spettacolo, una bambina a cui batteva forte il cuore e che custodiva in sé grandi ambizioni.

Il balletto fu terribile: ebbi crampi e il fiato corto tutto il tempo. Un prodigio mi aveva fatta entrare nel corpo della prima ballerina, di cui pativo gli sforzi, l’acido lattico, le conseguenze dello sforzo danzante. Il viaggio verso casa fu una tortura ancora peggiore. La mia passione correva forte nelle vene, mentre il tram, gelato dal Buran, procedeva lento e pesante. Quello spettacolo mi aveva trasformata in una bambina impaziente che non ammetteva compromessi né rallentamenti, per arrivare dove voleva. L’idea di rimanere un minuto di più senza le scarpette ai piedi, senza scalmanarmi “compostamente” come aveva fatto Irina Checov, nel suo abito di tulle, era inammissibile. Volevo quel costume! Sarei stata capace di intrufolarmi dietro le quinte per impossessarmi del suo, che avrei tenuto stretto la notte, come un cuscino, fino a che non fossi entrata nel corpo di ballo più celebre di Mosca.

Una voracità sconosciuta si accaparrò dei miei piedi, che chiedevano di essere curvati tutti i giorni per raggiungere un arco perfetto, poi una brusca frenata interruppe i miei sogni: il giorno dopo sarei dovuta andare a scuola, la routine quotidiana avrebbe ripreso. Ero ancora piccola e non potevo accelerare il tempo. La cosa m’indignò, ebbi voglia di piangere. Trattenni sovieticamente i singhiozzi e approfittai delle frenate del tram per frenare anch’io le immagini di un successo lontano, di un lusso danzante che volevo calcare.

Liubou V. Lo spettacolo 2

Dopo qualche minuto riuscii a calmarmi: complice la voce di mia madre che, parlando di cose qualunque, come una mano mi riportò alla realtà, alla pesantezza e alla materia delle cose profane, di ogni giorno. Mosca sfilava fuori dal finestrino, sotto i nostri occhi impietriti dal freddo.

Aiutata dal dito di mia madre che passava sulle cose che sfilavano sotto i nostri occhi: l’orologiaio, Aleksandr!, la bisca, la piazza centrale. La cioccolateria Alenka, sulle cui confezioni risaltava da un mese il ritratto di Svetlana Allilueva, la figlia di Stalin!

Improvvisamente il ghiaccio sgelò e il procedere del tram andò finalmente alla stessa velocità del sangue nelle mie vene e delle speranze nel mio cuore. Su quella vecchia ferraglia, più che mai altrove sulla terraferma, mi ero sentita felice e ricolma di gratitudine: era stato lì che avevo capito cosa volevo essere; era stato lì che avevo messo a punto la mia missione di vita.

Scesi. Il desiderio, seppur ancora alto e intenso, si ricompose. Se poco prima aveva piroettato, ora, per usare il gergo della danza classica, aveva assunto la prima posizione ed ero pronta a lavorare sodo per arrivare dove volevo.

Passarono dieci anni, fatti di giorni in cui, rientrando a casa dalle lezioni, c’era sempre per me, sotto al canovaccio, la torta Sharlotka nelle fattezze che il cuore di mia madre, invecchiato e condizionato dal tempo, le faceva prendere.

Liubou pensive

Mi chiamo Liubou, oggi compio vent’anni ed è il mio primo giorno da ballerina del Bolshoi.